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Luoghi&Territori FVG

~ Esplorazioni partecipate nei paesaggi in trasformazione

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Archivi tag: Aziende virtuose

Lungo la Valle del Cosa

23 venerdì Set 2016

Posted by Moreno Baccichet in Esplorazioni, Luoghi & Territori

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Tag

allevamento, Alpaca, Aziende virtuose, Castelnovo del Friuli, Esplorazioni, Formaggio, paesaggio, Paesaggio pedemontano, pastorizia, Poligono del Ciaurlec, Travesio, Val del Cosa

 

Domenica 25 settembre 2016

Ritrovo ore 9,00 sul piazzale della Stazione ferroviaria di Travesio

L’escursione lungo il torrente Cosa è stata pesata per cercare di capire la geografia dei luoghi e il complesso ambientale che vede ilcorso del Cosa come una sorta di confine tra l’insediamento di travesio appoggiato a una pianura di ghiaie trasportate da un antico letto de Meduna e i sistema dee colline di Castelnovo dove e argille si appoggiano agli ambienti calcarei del Ciaurlec.

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Il ponte sulla forra del Cosa

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Le praterie aride nei pressi della pieve di San Pietro

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Terrazzamenti recuperati sotto il colle del castello

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Tipico portico in legno dell’architettura di Castelnovo

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Un alpaca della Zalpa

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Il ponte sul Cosa a Paludea

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La fontana del Tof

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La cava di marna del cementificio

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Un sentiero arginato per le pecore

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portico di una abitazione tradizionale nel paese evacuato di Praforte

Percorso

Come arrivare: Per chi arriva dall’autostrada deve uscire a Cimpello, risalire i Meduna fino a Sequals e da qui prendere in direzione Travesio.  Chi arriva dall’udinese, invece, dovrà raggiungere Spilimbergo per Dignano e poi risalire per Lestans.  Chi proviene dalla pedemontana di Maniago deve prendere la direzione di Meduno e poi Toppo.

La stazione di Travesio è posta nei pressi della frazione di Usago, a Sud del Capoluogo. Di fronte alla stessa c’è un ampio parcheggio alberato.

Tempo di percorrenza:   8 ore lunghezza 14 chilometri e circa 400 metri di dislivello

Grado di difficoltà:  da escursionisti il tratto della forra, mentre il resto è prevalentemente su strada.

 

 

Motivazioni per la scelta dell’itinerario

Lo storico sistema economico dell’agricoltura di Travesio e Castelnovo si faceva forza di una straordinaria dotazione di terre pubbliche poste sul massiccio calcareo del Ciaurlec. I territorio arido era privo di acqua, ma era un’ampia prateria inclinata incisa dal Cosa e qui si ricavava gran parte dell’erba che sorreggeva un sistema di produzione casearia che aveva il suo centro sul latte di vacca e su una buona quantità di prodotti pecorini.  Il censimento degli animali del 1868 rende conto del patrimonio zootecnico dei due  comuni.

cavalli muli asini tori vacche giovenche buoi torelli e vitelli pecore capre Maiali
Castelnovo 8 52 24 4 483 104 158 538 64 248
Travesio 13 1 8 252 52 38 76 152 1 17

Si può così notare come a Castelnovo la produzione di carne di vitello e torelli fosse una importante fonte di guadagno, così come la diffusa presenza di animali da soma fa pensare all’utilizzo degli stessi nelle carovane dei commercianti migranti in nord Europa. A Castenuovo non c’erano tori perché le lavorazioni sui terreni privati erano fatte per lo più a zappa, diversamente a Travesio i buoi erano abbastanza diffusi, ma si usavano anche le vacche per tirare l’aratro. Le capre a Castelnovo erano usate per sfruttare le parti meno produttive della forra del Cosa, mentre le pecore pascolavano nell’ampia prateria arida del Ciaurlec e a sera rientravano al paese.

Il forte contrasto tra un ambiente ricco d’acqua, il Cosa e i suoi affluenti, e uno arido, il Ciaulec, caratterizzava il paesaggio e le pratiche antropiche.

Un po’ di Storia del paesaggio agrario

Il paesaggio che vedremo invece oggi è del tutto diverso e mutato rispetto al passato.  La gran parte degli animali è scomparsa e soprattutto sono scomparse le praterie che rendevano evidente la presenza dei ruminanti. Oggi le aziende agricole sono pochissime e trovare degli esempi di ripresa non è facile. La modernità è affermata paesaggisticamente dal grande cementificio e dalle cave di marna ora fermi per la crisi dell’edilizia.

Il simbolo di quella che è stata una delle prime vertenze ambientali in provincia oggi riposa muto costruendo un paesaggio ridondante di luci notturne nella pianura di Usago. Qui il moderno di è espresso lasciando ampio spazio alla natura che ha interpretato con il bosco ogni spazio residuale, al punto che la vegetazione che una volta era rarissima oggi è per eccellenza il principale carattere della Val del Cosa.

Negli anni ’60 il ministero della difesa si affacciò nella valle con l’intenzione di costruire uno dei più vasti poligoni di tiro della regione. Per farlo espropriò comuni e privati di tutte le terre del versante in riva destra del cosa. Per problemi di sicurezza fecero abbandonare il paese di Praforte e impedirono per decenni il transito sulla zona del monte menomando l’economia delle piccole aziende agricole. Lentamente la gente di Castelnovo e Travesio cominciò a dimenticare questi luoghi bombardati dall’artiglieria pesante dell’Ariete.  Il poligono divenne una sorta di luogo separato e anche dopo l sia dismissione all’inizio degli anni ’90 questi settori del territorio sono rimasti poco frequentati. Cartelli, postazioni, l’osservatorio Tigre e i diffusi crateri sono oggi elementi di archeologia del contemporaneo.

 

Il percorso

La nostra escursione partirà dalla stazione di Travesio per raggiungere Molevana e visitare il caseificio Tre Valli costruito per preservare la tradizione casearia della zona, ma sottoposto a forti tensioni a causa dei problemi del mercato del latte. Da qui raggiungeremo il Cosa in un punto speciale chiamato il Puntic. Un ponte ingiustamente definito romano che supera il torrente nel punto in cui questo ha profondamene eroso il materasso alluvionale depositato dall’antico corso del Meduna. Qui il fiume è contornato da un ambiente di vegetazione selvatica di nuova formazione e i sentieri che si raccordano al ponte garantivano i collegamenti con Castelnovo e le sue borgate.

Dal ponte ci dirigeremo alla volta della chiesa pievana di San Pietro, punto focale della colonizzazione religiosa nella pedemontana. Cercheremo così di visitare l’interno perché qui c’è uno dei cicli pittorici più importanti del Pordenone. I ciclo di dipinti dedicato a San Pietro ci è particolarmente utile perché rappresenta i fatti nel contesto paesaggistico della pedemontana d’inizio XVI secolo. Infatti l’artista rinascimentale, tanto attento alle prospettive dei fondali, fu presente in chiesa nel 1516-17 e nel 1525-26. Gli affreschi illustrano storie della vita di San Pietro, tra cui, nel soffitto, Pietro accolto in cielo. Inoltre storie di S. Paolo, con la folgorazione sulla via di Damasco, ed episodi del vecchio e nuovo testamento, con figure di Santi e putti. Nel sottarco figure femminili allegoriche: Prudenza, Temperanza, Carità, Fede, Giustizia e Fortezza.

 

I colli prativi con sopra i castelli ricordano l’ambiente di Pinzano e Castelnovo, luoghi ben conosciuti da pittore.

La pala dell’altar maggiore è del genero del Pordenone, Pomponio Amalteo, che la realizzò nel 1537, raffigurando la Madonna del Rosario e i Ss. Sebastiano, Rocco, Antonio Abate. I prii due proteggevano gli uomini dalla peste, San Antonio, invece proteggeva gli animali che si muovevano su quel paesaggio di colline e monti che fa da fondale alla scena sacra.

Ancora una volta il nostro interesse è porre la distanza tra le forme del paesaggio antico e quello del nostro presente.

Passeremo per il centro del paese che si distribuisce lungo il Cosa che in questa zona è poco profondo e che era ricco di incontri con l’acqua e opifici idraulic. Arriveremo alla fine della cortina edilizia dove la chiesa di Zancan, la borgata di Travesio che nelle giornate invernali subiva i danni di una scarsa esposizione solare, si protende sullo spazio pubblico con un bellissimo portale del Pilacorte.

Costruire altri edifici lungo il torrente era impossibile perché sarebbero stati all’ombra per molti mesi all’anno. Per questo, lungo uno storico sentiero, ci sposteremo un po’ più in alto sul Cosa dove attraverseremo una serie di borgate di Castelnovo poste in alto sul fiume, in una posizione molto bella da un punto di vista panoramico. Questa nuova direttrice insediativa sgrana gli abitati di Ghet, Braida, Vidunza e Martiners, dove ci fermeremo per farci raccontare l’esperienza dagli amici di Zalpa che qui allevano esotici Alpaca.

Da Martiner schenderemo nuovamente sul Cosa nell’ampio anfiteatro di colline occupato da molti borghi posti al piede dei colli di argilla.

Lungo il sentiero raggiungeremo la fontana del Tof e poi Almadis, l’ultimo paese prima della forra che giustificò a costruzione di uno sbarramento per la produzione di energia elettrica, il bacino del Tul. Poco sopra Almadis avremo modo di notare l’insediamento medievale posto su Col Monaco e la cava di arenaria del cementificio ora non utilizzata e in fase di naturalizzazione.

Per un sentiero costruito per impedire alle pecore di entrare nei terreni privati, quindi incassato nel terreno e rinforzato con muri in arenaria chiara, saliremo rapidamente verso il bordo della forra del Cosa entrando nel poligono di tiro. Incontreremo per primo il poligono per e armi leggere e poi saliremo di un centinaio di metri un sentiero poco segnato per raggiungere uno straordinario belvedere su Clauzetto, il Tagliamento e la pianura.

Da qui attraverseremo il poligono di tiro e i prati che si sono conservati grazie all’effetto degli incendi provocati dalle esplosioni. Oggi il poligono abbandonato può essere una importante risorsa per le due comunità. La superficie della parte di Castelnovo corrisponde a circa il 40% della superficie del comune ed è stato riconosciuto come Sito di Interesse Comunitario dall’UE per i suoi valori ambientali. In sapore di dismissione diventa importantissimo far iniziare un dibattito sul riuso con nuove forme di agricoltura di uno spazio così grande e strategico.

Da qui per la strada normale scenderemo verso la borgata di Praforte, evacuata negli anni ’60 e oggi quasi completamente diroccata.

In serata raggiungeremo l’agriturismo Alle Genziane, dove Doriana Bertin ci racconterà la sua esperienza di agricoltura e trasformazione dei prodotti e dove chi vorrà si potrà fermare con noi per la cena.

Le aziende che visiteremo

Latteria TreValli a Molevana di Travesio 

Via Garibaldi, 20

tel: 0427-908317

A Molevana di Travesio il locale caseificio è recentissimo, del  28 dicembre 1991. Si è trattato del tentativo di unire una serie di latterie turnarie della zona: Molevana, Travesio, Toppo, Sottomonte, Meduno e Fanna poi dimostratosi insufficiente per riorganizzare la produzione casearia. Il nome doveva far capire che si trattava di trattare il latte di allevatori che operavano in Val D’Arzino, Val Cosa e  Val Tramontina. In un primo momento la produzione fu concentrata su tre caseifici: Molevana, Toppo e Sottomonte. Poi, con la pubblicazione dei bandi 5B, si decise di ristrutturare il caseificio di Molevana, che doveva diventare l’unico stabilimento di produzione della cooperativa. Tra il 1999 e il 2000 che ha registrato una riduzione dei soci da 65 a 23. Il caseificio lavora giornalmente 80 q.li di latte, trasformato per il 90% in Montasio e dispone di 3 punti vendita (Molevana, Meduno, Cordenons) dove viene venduto circa il 40% della produzione. CI faremo spiegare il significato della riscoperta del “salato”. La cooperativa, con la ditta Tosoni e Rosa Dorigo hanno inoltrato la richiesta all’UE per un riconoscimento IGP di questo tipo di formaggio con il desiderio di chiamarlo “Formaggio salato Asino”, anche se l’Asino era un’altra cosa e oggi non lo produce nessuno. Oggi la cooperativa è stata assorbita da una società privata e gestita da Mario Canderan.

 

Azienda agricola Zalpa a Castelnovo

Stefano Blarasin ed Edoardo Braida sono due giovani che hanno deciso di costruire una nuova e speciale azienda a Castelnovo in una zona di abbandoni e di difficile ripresa delle attività agricole. I ragazzi della Zalpa hanno deciso di allevare alpaca e di coltivare zafferano. Attività agricole che hanno poco a che fare con la zona. Proprio per questa capacità di inventare nuove strade l’azienda ha ricevuto attenzioni e premi e sarà interessante vedere sviluppare Zalpa nel prossimo futuro.

 

Agriturismo Alle Genziane

Doriana Bertin una quindicina di anni fa ha coinvolto tutta la famiglia in un progetto di radicale riforma dell’azienda agricola costruendo una filiera corta allevando i propri maiali e realizzando salum , con il marchio salumi Cortina, che vende nel bar-spaccio presso la ex latteria di Travesio. Qui ha attrezzato un piccolo negozio che propone prodotti di qualità prodotti da altre aziende come la latteria di Pradis. Oltre a questo l’azienda produce farina di mais di qualità in varietà tradizionali.

www.allegenziane.it

Per partecipare

La passeggiata si svilupperà per lo più su stradine asfaltate, ma ci sarà anche un sentiero in ripida salita quindi consigliamo scarpe da trekking e un abbigliamento pesante nel caso cambi il tempo. L’itinerario ci porterà al’agriturismo dove alcune auto di appoggio riporteranno gli autisti a Travesio.

L’escursione prevede una camminata lenta di circa otto ore consigliabile ad escursionisti allenati.  Chi viene con i figli è pregato di prestare a loro le dovute attenzioni.

Vi raccomandiamo un abbigliamento conforme alla stagione variabile soprattutto in considerazione delle previsioni del tempo.

Per i problemi finanziari dell’associazione le escursioni di Luoghi&Territori non sono gratuite, ma sottoposte a una quota di rimborso spese per compensare i costi organizzativi. I non iscritti pagheranno 5 euro mentre gli iscritti 3. Per i bambini rimane tutto gratuito.

 

Numero massimo di adesioni: trenta con obbligo di prenotazione.

Per informazioni e prenotazioni:

Moreno Baccichet: 043476381, oppure 3408645094, moreno.baccichet@gmail.com

Informazioni aggiornate saranno inserite nel sito dell’associazione: www.legambientefvg.it e www.luoghieterritori.wordpress.com

Ringraziamo per il prezioso aiuto la Regione Friuli Venezia Giulia

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La prateria medievale, i paesaggi del mais e quelli della vigna industriale

30 mercoledì Mar 2016

Posted by Moreno Baccichet in Esplorazioni, Luoghi & Territori

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Tag

Aziende virtuose, Domenico Pecile, Esplorazioni, Paesaggi del prosecco, praterie, San Giorgio della Richinvelda, Trasformazioni paesaaggistiche

Luoghi&Territori 2016

Esplorazioni partecipate nei paesaggi in trasformazione

 

Domenica 3 aprile 2016

I nuovi paesaggi dell’agricoltura industrializzata dell’alta pianura

Ritrovo ore 9,00 in piazza a Domanins

1

I paesaggi dell’alta pianura pordenonese vanno considerati tra i più modernizzati dell’intera regione. L’arrivo dell’acqua dopo gli anni ’30, ma soprattutto i nuovi sistemi di irrigazione, ha permesso di costruire un ambiente ricco di nuovi disegni di modernità e di imprenditorialità. Le antiche praterie hanno lasciato il posto a vigne e coltivazioni di pregio. Attività impensabili solo mezzo secolo fa. Con questa escursione visiteremo i territori influenzati dalla continua crescita dei vivai di Rauscedo e le campagne della Richinvelda ormai colonizzate da vitigni forestieri, come il prosecco.

Percorso

Come arrivare: Per chi arriva dall’autostrada consigliamo di prendere la Cimpello-Sequals e uscire all’uscita di Zoppola-Arzene. Da qui lungo la provinciale verso monte dopo pochi chilometri si raggiunge Domanins. Per chi arriva da Nord consigliamo di passare il Tagliamento sul ponte di Dignano e scendere verso Provesano, San Giorgio e Domanins.

Tempo di percorrenza: 8 ore lunghezza 14 chilometri

Grado di difficoltà: nessuno, perché gran parte del percorso è su strade campestri poco trafficate,.

Motivazioni per la scelta dell’itinerario

La prima escursione del 2016 si svolge tutta all’interno del comune di San Giorgio della Richinvelda, un territorio oggi conosciuto nel mondo per la nuova tradizione della vivaistica viticola, ma che anche in passato fu un centro di importante sperimentazione agricola e sociale.

Soprattutto a partire dalla seconda metà dell’800 l’arrivo in paese della famiglia Pecile pose il paese all’attenzione regionale per alcuni esperimenti di innovazione colturale che in un paese così arido e legato alle tradizioni dell’agricoltura antica non era in grado di produrre da solo. Qui ci muoveremo comprendendo quali erano le forme del paesaggio di antico regime. Un paesaggio che era talmente arido che la maggior parte del territorio era conservata ad uso di pascolo pubblico. La carenza di acqua da sempre metteva in crisi la capacità dei contadini. Le frange tra le vecchie terre coltivate e i pascoli pubblici sono ancora visibili nonostante il paesaggio sia stato normalizzato.

Negli ultimi quindici anni la zona di San Giorgio si è molto trasformata con la copertura a vigna, progressiva e apparentemente inarrestabile, delle superfici che alcune decine di anni fa erano state attrezzate per produrre mais. Il passaggio da una produzione di mais e soia dedicata all’allevamento si sta trasformando in una enorme vigna industriale costruendo nuovi paesaggi in un ambito molto particolare. Un brano di territorio poroso.

Un po’ di Storia del paesaggio agrario

Le terre aride e prative furono una importante fonte di reddito per le famiglie dell’alta pianura fino a che le forme di gestione comunitaria della terra non furono messe in discussione a partire dalla seconda metà del ‘700. Poco alla volta le grandi praterie magredili assunsero un valore negativo nella retorica della stampa dell’epoca. Contrariamente al periodo medievale il magredo divenne un simbolo di inefficienza e di disagio economico: “Dalla Richinvelda fino ai piedi dei colli di Sequals si estendono, per centinaia di chilometri quadrati, vaste praterie di natura magrissima, le quali danno di regola un miserabile prodotto in fieno. Qui le campagne, anche relativamente fertili, per la gran parte non producono medica, e danno poco prodotto di trifoglio; la scarsezza quindi e la poco buona qualità dei foraggi si oppongono direttamente ad un rapido miglioramento agricolo in questa regione.”1

Le parole di Domenico Pecile aprivano le porte alla grande trasformazione paesaggistica e territoriale che con l’irrigazione artificiale avrebbe trasformato l’alta pianura pordenonese trasfigurando i vecchi pascoli in aziende agricole moderne.

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In verde si vedono e praterie magredili e in ocra te terre coltivate

L’intenzione allora era quella di trasformare le aziende agricole verso una maggiore efficienza nella produzione della carne e per fare questo bisognava promuovere un uso diverso del territorio. Gli animali dovevano rimanere in stalla mentre le grandi campagne sarebbero state privatizzate e coltivate per produrre più foraggio. Ricordava Domenico che “dal momento che io mi trovai nella necessità di occuparmi di agricoltura in questi siti, portai tutta la mia attenzione nel cercare nuove piante da foraggio di cui la coltura fosse rimuneratrice.

Numerose furono le esperienze fatte in quest’azienda e numerosi pure gli insuccessi.

Alcune però delle prove fatte riescirono bene, ed anzi mi lusingo di esser giunto a trovare alcune piante, la cui coltura potrà recare reali vantaggi a questi siti (…)

Mi permetterò soltanto di chiudere questa lunga e noiosa enumerazione, raccomandando caldamente ai contadini di questa regione di seminare nei loro campi in secondo raccolto dietro frumento dei foraggi, sieno essi Moha, Saraceni o Maiz, i quali sono, a conti fatti, immensamente più rimuneratori dei cinquantini, che formano un raccolto costoso ed incerto.”2. Questa trasformazione colturale dal prato stabile a quello artificiale seminato ad erbe produsse una enorme trasformazione sociale e produttiva. Territori dotati di poco suolo potevano cominciare a produrre grandi quantità di cibo per i bovini grazie all’utilizzo di concimi non naturali: “Abbiamo anche sentito come dopo alcuni anni che il prof. Pecile usa i concimi chimici, il consumo di tali materie andò così aumentando, da consigliare la ditta co. L. Manin a stabilire uno speciale rappresentante a San Giorgio della Richinvelda. Colà, ci si raccontava, la formola di concime adottata dal professor Pecile, ha acquistato tal credito che non di rado numerosi carri dei contadini seguono quelli del proprietario quando va a fare le sue provviste di concime: questo perché quei buoni villici vogliono assicurarsi che sì dia a loro la stessa materia concimante che viene venduta al proprietario”3.

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Villa Pecile a San Giorgio

Parallelamente una attenta selezione dei bovini poteva portare dei benefici alle aziende e alle comunità. La propaganda legata all’allevamento degli animali diede profondi frutti se si considera che nel 1908 a San Giorgio della Richinvelda venivano censiti 303 manzi un toro, 924 vacche e ben 245 buoi. Le monte coordinate in modo cooperativo avevano privilegiato gli incroci con la razza Simmental importata direttamente dalla svizzera4.

L’istituzione di un servizio cooperativo per la fecondazione delle armente e il miglioramento della razza andavano attribuiti all’arrivo dei Pecile che a San Giorgio fondarono una delle aziende agricole più moderne del Friuli. Nel necrologio del capostipite si ricordava come “Nel giorno che il senatore G. L. Pecile ne divenne uno dei più forti proprietari, si decisero le sorti di questa Comune. Egli vi portò i primi aratri perfezionati, le prime piante, le prime sementi selezionate; fu egli che iniziò il miglioramento del bestiame, che fece le prime esperienze colturali.

Prese parte all’amministrazione comunale portandovi quello spirito di pratica modernità che informava le opere Sue, e rimase a quel posto fino a che non venne sostituito dal figlio prof. Domenico, il quale, non dissimile dal padre, lavorò e lavora indefessamente per il miglioramento di quel territorio,

Oggi S. Giorgio si è trasformata: prosperano la vite ed il gelso, i prati stabili diminuiscono per dar luogo alla coltura intensiva dei cereali dei foraggi; il bestiame bovino migliora, sono sorte e sorgono le Cooperative. Egli iniziò tutto questo: oggi raccolgono i frutti di quanta Egli ha seminato!5 “.

San Giorgio nel 1805

I Pecile furono il motore trainante di tutte le attività cooperativistiche dei villaggi contermini e questa “nuova tradizione” non si è ancora spenta e si alimenta nelle cooperative vivaistiche e vinicole locali. Certo rispetto alla fine dell’800 il paese è forse più conosciuto sul fronte del vino nonostante i vini di San Giorgio non mancassero di vincere alcuni dei primi concorsi in provincia, come nel 1896 con il Cordenossa-refosco di Rauscedo prodotto dall’azienda Bisutti.

San Giorgio fu anche uno dei luoghi dove si rispose alle malattie delle uve introducendo il “vino rosso Bordeaux Carpenet” premiato nel 1883 insieme ai tradizionali “vino Aurava bianco” e “vino Aurava nero” che erano fatti con uvaggi di viti autoctone.

I Pecile nella loro azienda agricola sperimentavano tecniche di coltivazione che venivano poi pubblicizzate nelle riviste specialistiche e copiate dai contadini locali: “Da qualche anno ho introdotto nell’Azienda di San Giorgio un nuovo modello di falci da mietere, che, a mio avviso, potranno, più facilmente della falce Americana, diventare di uso comune anche fra i contadini, e ciò sia per il lievissimo loro costo, che per la facilità e comodità con cui possono essere adoperate. Esse destano già l’ammirazione di questi paesani i quali dal nuovo strumento si vedono intieramente risparmiata la faticosissima operazione della mietitura colla falciuola (sèsule)”6 .

Il paesaggio di allora stava lentamente cambiando cancellando le praterie e rendendo più complesso il disegno dei campi attraverso un disegno policolturale era segnato anche dalla rotazione agraria che oggi non possiamo più vedere: “Rotazione agraria praticata nelle diverse qualità di terreni. Granoturco, frumento, medicai e trifoglini: 40 00 prato artificiale – 30 00 granoturco -20 00 frumento – 2 00 avena – 3 00 segale -5 00 colture varie (fagiuoli, sorgorosso, patate, barbabietole da zucchero e da foraggio, verze, rape, lino.

NB. Ora gli aratori sono divisi in due qualità: in aratori con gelsi e aratori arborati-vitati. Nella colonna 3.a vennero aggiunti Ea 67 e tolti nel mod. B nei pascoli, zerbi e ghiaia cespugliata e ripartili tra le due qualità ora esistenti”7.

I territori al pascolo erano sostanzialmente banditi e il ricordo delle pratiche di allevamento di tradizione medievale erano abbandonate. Per contro venivano attivate forme di assistenza di tradizione liberale come locanda sanitaria che era una cucina per i meno abbienti8.

Descrizione dell’itinerario

Partiremo dalla frazione di Domanins visitando una delle aziende più interessanti della zona, quella dei Tondat che da alcuni anni hanno ripreso a produrre un uvaggio che si fa forza su due storici vitigni della zona, il Cordenossa e la Palomba. Da qui percorreremo una stradina campestre che sfiora il giardino della villa Spiimbergo-Spanio e che un tempo faceva da confine tra i terreni coltivati e la prateria. Oggi a strada innerva un paesaggio di campi coltivati e attrezzati con opere di irrigazione moderne. Da qui raggiungeremo Rauscedo in vista dei due importanti stabilimenti dei vivai e della cantina vinicola. Qui raggiungeremo un luogo importantissimo da un punto di vista storico e da quello culturale.

Nei pressi della chiesetta campestre di San Nicolò che un tempo segnava il confine meridionale di quella grande prateria che saliva fin quasi a Sequals, alcuni signori friulani legati al partito tedesco attraccarono la carovana che accompagnava i signore del Friuli, il francese Bertrando di St. Geniès nel 1350. Ferito a morte i Patriarca di Aquileia morì qui e questo prato divenne un luogo della memoria popolare. Per questo motivo una sorta di tabù di matrice storica fece si che il prato limitrofo alla chiesa non fosse mai stato coltivato. Oggi questo è uno dei pochi brandelli dell’originario e medievale mantello prativo che copriva gran parte dell’alta pianura. E’ in pratica un testimone di un paesaggio ormai scomparso e conserva un valore ambientale e paesaggistico straordinari.

Leggendo uno storico numero di Pagine Friulane ho rintracciato questa interessante nota che ricorda l’erezione del monumento dedicato a Bertrando nel 1895 e che merita trascrivere perché è un interessante esempio di viaggio in patria: “Desideroso di visitare il sito ove avvenne la tragica fine del patriarca Bertrando, per leggere de visu l’iscrizione ricordante quel fatto, oggi mi recai alla Richinvelda, e là trovai demolito il vecchio cippo in muratura e un operaio intento a completare un pilastro in Portland. In uno specchietto di questo osservai ricollocati i tre frammenti della, vecchia lapide (*) e, nell’opposta faccia, murata la seguente iscrizione scolpita su marmo di Carrara, il tutto eseguito – mi si disse – per cura del segretario vescovile D. Carlo Riva. È un lavoro che ricorderà più decorosamente e con esattezza cronologica ,quella pagina di storia patria9.

La chiesetta campestre divenne un luogo di pellegrinaggio e di fede e fu ampliata con un nuovo presbiterio che accoglie importanti affreschi e uno straordinario altare lapideo del Pilacorte realizzato nel 1497 in stile rinascimentale.

Da qui ci dirigeremo verso San Giorgio attraversando quel settore di prateria che nella seconda metà del’800 divenne uno degli ambienti di espansione dell’azienda agricola dei Pecile e che oggi invece assume il carattere di una coltivazione intensiva. Lungo una storica strada campestre raggiungeremo il villaggio di San Giorgio che qui sotto vediamo in una rappresentazione catastale di epoca austriaca.

Nel piccolo paesino caratterizzato da una stretta strada canale sono visibili due fatti urbani importanti. Quella che diventerà villa Pecile e la chiesa parrocchiale poi riformata da Gerolamo D’Aronco. Questi due cantieri promossi dalla famiglia borghese oggi caratterizzano il centro del villaggio esprimendo una architettura segnata dallo storicismo della fine de XIX secolo.

Ci dirigeremo poi verso Pozzo costeggiando a ferrovia novecentesca oggi abbandonata ponendoci ai bordi di un’area rivierasca del Tagliamento caratterizzata dai segni di una lottizzazione agraria medievale centrata sul castello di Cosa. La fortificazione medievale nel settecento fu adattata alle forme di palazzo e divenne un centro di produzione agricola.

A Provesano transitando per i centro, visiteremo la chiesa parrocchiale per osservare l’importante affresco che decora l’abside dipinto ne 1496 da Gianfrancesco da Tolmezzo. Nella chiesa ci sono altre opere coeve lapidee del Pilacorte, ma il nostro interesse non sarà finalizzato solo a una lettura artistica del’edificio religioso, ma ci interessa osservare sul fondale de’affresco quel paesaggio quattrocentesco che Gianfrancesco riconosceva alla pedemontana del Friuli.

Da Provesano attraverseremo la grande prateria medievale trasformata oggi in una moderna centuriazione agricola. Questo territorio è uno degli ambienti che sta subendo in questi anni le più straordinarie trasformazioni. Pensato come un ambiente per la produzione di cereali negli ultimi dieci anni sta subendo un progressivo aumento dei terreni coltivati a vigna. Si tratta però di vigne moderne, disegnate per una raccolta del’uva a mano. Vigne che con il loro disegno geometrico rendono ancora più rigida la composizione dei campi. Quello che per mezzo secolo è stato un paesaggio del mais oggi si sta lentamente strutturando per trasformarsi in quello del Prosecco visto che l’espansione di queste uve anche sulla pianura pordenonese sta promuovendo una ristrutturazione delle aziende agricole.

Attraverseremo lentamente questa pianura apparentemente omogenea per raggiungere l‘agriturismo da Tina dove ci fermeremo anche per la cena.

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Paesaggio di vitigni attrezzati per a raccolta a macchina

Le aziende che visiteremo

SOCIETA’ AGRICOLA TONDAT STEFANO Via S. Martino 10 – 33095 San Giorgio Della Richinvelda (PN) tel. 0427 – 94315 – http://www.tondat.it

Ci è sembrato importante visitare questa azienda agricola che oltre a curare la filiera del vino in proprio ha tentato negli ultimi anni di riproporre un vino tradizionale della zona di San Giorgio, il vin di Uchi che è realizzato mescolando un quarto di Palomba, un quarto di Cordenossa e due quarti di Refosco gentile.

Ci faremo raccontare le difficoltà incontrate nel riproporre un vino storico in un territorio ormai lanciato nella rincorsa del successo del prosecco.

LA GANGA, di Alfio Lovisa

Si tratta di una azienda tra le più interessanti del settore vitivinicolo perché oltre ad essere biologica ha tentato dei percorsi originali di vinificazione moderna, anche in questo caso non senza difficoltà.

AGRITURISMO DA TINA

Una azienda da venti ettari nel’alta pianura era troppo piccola per la maidicoltura quindi un decennio fa la famiglia proprietaria ha intrapreso un interessante percorso di ristrutturazione aziendale diventando una fattoria didattica e sociale e investendo sula filiera del’oca.

Qui potete vedere l’intervista fatta da Elisa Cozzarini

https://www.youtube.com/watch?v=HKhlPJHyHEM

Per partecipare

La passeggiata si svilupperà per lo più su stradine campestri e sterrate quindi sono sufficienti scarpe da passeggio o da ginnastica. L’itinerario non è circolare ma lasceremo alcune auto all’agriturismo per riaccompagnare gli autisti.

L’escursione prevede una camminata lenta di circa sei ore priva di difficoltà. Chi viene con i figli è pregato di prestare a loro le dovute attenzioni.

Vi raccomandiamo un abbigliamento conforme alla stagione variabile soprattutto in considerazione delle previsioni del tempo.

Per i problemi finanziari dell’associazione le escursioni di Luoghi&Territori non sono gratuite, ma sottoposte a una quota di rimborso spese per compensare i costi organizzativi. I non iscritti pagheranno 5 euro mentre gli iscritti 3. Per i bambini rimane tutto gratuito.

Numero massimo di adesioni: trenta con obbligo di prenotazione.

Per informazioni e prenotazioni:

Moreno Baccichet: 043476381, oppure 3408645094, moreno.baccichet@gmail.com

Informazioni aggiornate saranno inserite nel sito dell’associazione: www.legambientefvg.it e www.luoghieterritori.wordpress.com

Ringraziamo per il prezioso aiuto la Regione Friuli Venezia Giulia

1 D. Pecile, Riassunto di alcune esperienze di colture di foraggi, Bullettino della Associazione Agraria Friulana, s.III, V.VI, n.29, 16 luglio 1883, 228,

2Domenico Pecile, Riassunto di alcune esperienze di colture di foraggi, “Bullettino della Asssociazione Agraria Friulana”, S.III, vol.VI, n.29, 16 luglio 1883, 228-230

3L’uso dei concimi chimici si diffonde anche fra i contadini, “Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana”, S.IV, V.IV, n.13, 14 giugno 1887, 214

4Come ha contribuito finora la provincia di Udine all’alimentazione carnea dell’esercito, Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana, a.64, n1-12, 31 dicembre 1916, 23-55

5Necrologio per la morte di Gabriele Luigi Pecile, “Il Friuli”, 2 dicembre 1902

6Domenico Pecile, Falci per mietere cereali, “Bullettino della Asssociazione Agraria Friulana”, S.III, vol.VI, n.29, 16 luglio 1883, 230-231

7D. Pecile, La statistica agraria in Friuli, Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana, a.52, n.6-8, 30 aprile 1907, 223-248

8 Locanda sanitaria di San Giorgio della Richinvelda e San Martino al Tagliamento, Il Friuli, 17 maggio 1897

9 L. Billiani, Nuova iscrizione alla Richinvelda, Pagine Friulane, a.VIII, n.8, 13 otobre 1895,

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Oltre l’industrializzazione della “bassa”: Panigai (Pravisdomini) e Azzanello (Pasiano)

09 mercoledì Dic 2015

Posted by Walter Coletto in Esplorazioni, Luoghi & Territori

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Tag

acqua, Aziende virtuose, Esplorazioni, paesaggio, Panigai, zone umide

Domenica 13 dicembre 2015

 Ritrovo ore 10,00 in piazza a Panigai

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programma Panigai Azzanello

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Complessita ecologiche e colturali tra pianura e collina

04 mercoledì Nov 2015

Posted by Walter Coletto in Esplorazioni, Luoghi & Territori

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Tag

allevamento, Aziende virtuose, chilometro 0

Esplorazioni partecipate nei paesaggi in trasformazione

Il Cibo produce e trasforma i paesaggi  Letture del paesaggio

agrario del Friuli Occidentale

Domenica 8 novembre 2015

Complessita ecologiche e colturali tra pianura e collina

Ritrovo ore 9,00 in piazza a Valeriano

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La rinascita culturale di Tramonti passa per il cibo?

09 sabato Mag 2015

Posted by Moreno Baccichet in Esplorazioni

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Tag

allevamento, Aziende virtuose, boschi, Esplorazioni, Tramonti, Val Meduna

Luoghi&Territori 2015

Esplorazioni partecipate nei paesaggi in trasformazione

Il Cibo produce e trasforma i paesaggi

Letture del paesaggio agrario del Friuli Occidentale

Domenica 10 maggio 2015

 Ritrovo ore 9,30 presso la Piazza del municipio di Tramonti di Sopra

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Scarpe&Cervello a Tramonti nell’ottobre del 2004

 

Negli ultimi anni nell’alta Val Meduna si è assistito a una riscoperta identitaria dei luoghi anche attraverso a una ricerca attenta su alcune tradizioni alimentari. La riscoperta della Pitina e del Formaggio del Cit sono esemplari, così come la volontà dell’amministrazione della Villa di Sotto di aprire un forno sociale che produca pane biologico. Attorno alla istituzione del presidio Sloow food della Pitina sembrano ora nascere delle spontanee iniziative di allevamento della pecora in una zona in cui la storica tradizione dell’allevamento ovino aveva visto subire un secco collasso dell’attività. La riscoperta di un cibo è capace da sola di rilanciare anche un paesaggio corrispondente? Mangiando molta pitina aumentano le praterie artificiali? Camminando il territorio ci chiederemo appunto di queste nuove prospettive.

Percorso

Come arrivare: Chi arriva da sud conviene che segua la Cimpello-Sequals per poi prendere per Meduno ed entrare in Valle. Gli altri seguano la pedemontana fino a Meduno percorrendo tutta la Val Meduna.

Tempo di percorrenza: 8 ore

Grado di difficoltà: nessuno.

Motivazioni per la scelta dell’itinerario

Tramonti a partire dal ‘500 subì una enorme espansione demografica e insediativa. Tutte le valli minori furono colonizzate costruendo sentieri, stalle e poi case stabilmente abitate. In pratica si verificò un aumento di animali e di uomini che è l’esatto opposto di quello che è accaduto negli ultimi settanta anni in vallata. Tramonti ha raggiunto i valori di popolamenti che c’erano nel medioevo e lentamente  h iniziato a subire un fenomeno di ricambio sia generazionale che di nuove famiglie immigrate in valle. Proprio nel momento in cui la crisi demografica ha reso più debole la vallata si sono osservati i primi segni di resilienza. La riscoperta di alcuni cibi tradizionali è diventata il collante tra nuovi e vecchi abitatori impensabile solo quindici anni fa.

Il grande lavoro partito dalla Proloco di Tramonti di Sopra e dal suo ispiratore Alido Rugo ha preso mano a mano vita attraverso un processo di valorizzazione e di coivolgimento di operatori. Se è vero che il vecchio laboratorio di Mattia Trivelli è chiuso da alcuni anni, altri in valle hanno ripreso in mano questa tradizione alimentare e molto si è fatto all’interno delle famiglie.  Rispetto a trent’anni fa la Pitina in valle è più diffusa e una serie di piccoli produttori la confezionano anche al di fuori del disciplinare del consorzio.

Un po’ di Storia del paesaggio agrario: Agricoltura e allevamento in vallata

In Val Meduna si sono susseguiti due opposti sistemi di organizzazione geografica dell’insediamento rurale. Il primo, quello medievale, prevedeva un evidente accentramento delle residenze all’interno dei tre centri abitati posti nel fondovalle. In seguito, a partire dalla seconda metà del ‘600, s’impose un modello di insediamento sparso, segnato da un gran numero di piccole borgate e case isolate1.

Tra il XVII e XVIII secolo, un fenomeno di profonda antropizzazione coinvolse tutta l’area di Tramonti. L’aver eluso il controllo politico sulla crescita demografica, mettendo in crisi il sistema delle risorse, condusse questa comunità e la sua valle alle soglie di un vero e proprio disastro ecologico. Sottoposta a un costante aumento demografico la montagna fu spogliata quasi per intero dei suoi boschi, frane e smottamenti erano all’ordine del giorno, ogni luogo sfruttabile fu colonizzato con un insediamento permanente o temporaneo. Anche i canali più isolati, che in un primo momento erano serviti come valvola di sfogo al processo di incremento demografico, iniziarono a soffrire il sovrappopolamento. Il ricorso all’emigrazione temporanea fu necessario per garantire un’economia di sussistenza alle fasce sociali più umili, pur non riuscendo con la stessa a porre rimedio ai maggiori squilibri rilevati nella gestione delle risorse della vallata.

Dalla seconda metà del XVII secolo l’esplosione dell’insediamento permanente, al di fuori delle ville originarie, provocò in Val Meduna uno squilibrio nel rapporto popolazione-risorse a sfavore di queste ultime. Al contrario in Carnia il XVII sec. si presentò come un secolo di stabilità demografica2.

Per gli antropologi una popolazione alpina raggiunge il successo quando riesce ad adattare la propria consistenza all’entità delle risorse ambientali ad essa soggette. Da questo punto di vista la Val Meduna si è scontrata nel tempo con un drammatico insuccesso, frutto di un aumento costante, ma non correlato, dei due parametri. Il principio omeostatico presuppone che a ogni variazione di un fattore, l’equilibrio venga subito ripristinato attraverso un automatico registro degli altri fattori, o mediante la restaurazione della situazione originaria. A ogni aumento della popolazione deve quindi corrispondere un aumento di risorse, ma se il territorio non è in grado di soddisfare le nuove esigenze l’espansione demografica rientrerà ai valori originari, oppure quella popolazione dovrà importare risorse dall’esterno aprendo sempre di più il suo sistema economico.

Ancora nell’800 il Bassi, descrivendo l’attraversamento di passo Rest, notava come a differenza “della rigogliosa vegetazione che copre per la maggior parte i monti della Carnia, tutto è deserto e squallore nella valle del Meduna. Ed invano si gira lo sguardo per trovare di posarlo su qualche ameno poggio tutto a prati, o a pascoli o a boschi, invano; tutto è dirupi nudi, tutto è frana. L’infinita ingordigia di quegli abitanti ha spogliato completamente quelle povere montagne, già ricche di boschi”.3.

Il Bassi, nella sua guida alpinistica ai monti friulani, contrappose il mito della verde Carnia all’immagine dei dirupi tramontini e, se è vero che la struttura geologica delle due regioni montuose è profondamente diversa, è pur vero che in Val Meduna, come in alcune zone un tempo sottoposte alla giurisdizione dei Savorgnan (Castelnovo e Clauzetto), l’uso del territorio e le strategie di insediamento avevano assunto connotati originali e tesi a uno sfruttamento profondo del territorio.

Nel Novecento la Val Meduna, più che altre zone della regione montuosa friulana, ha subito un forte regresso dei quadri antropogeografici7. Decine di abitati “fossili” costellano le sue vallate ormai abbandonate all’evoluzione post-colturale. I pochi nuclei ancora popolati sono diventati luoghi di residenza per una popolazione per lo più anziana e poco interessata allo sfruttamento del territorio e alla trasformazione economica del paesaggio alpino.

La crisi della montagna friulana, e di questo suo settore in particolare, negli ultimi decenni ha prodotto non pochi luoghi comuni. Il più diffuso è quello che vede nello spopolamento e nell’abbandono della montagna una forma di “degrado del paesaggio e dell’ambiente” .

Cosa era accaduto?

Durante il medioevo gli animali per gran parte dell’anno risiedevano all’interno delle tre ville storiche e gli stavoli esterni ai paesi erano rari.

I pochi censiti, più che caratterizzarsi come una forma di insediamento di mezza quota e di mezza stagione, erano stati costruiti per attrezzare i pascoli più lontani, ma posti su pianori a quote modeste: Barbeadis (547 m.), Palcoda (628 m.), Campone (436 m.) e Clez (367 m.). Erano quindi punti di un sistema radiale di organizzazione delle risorse ben diverso da quello che seguiva l’evolversi dei limiti vegetazionali lungo uno schema altitudinale.

La ricerca di nuove risorse non produsse un paesaggio di prati e stalle poste lungo i sentieri che portavano ai pascoli alti della Val Meduna, ma si diluì lungo i canali secondari. La distanza degli insediamenti temporanei da quelli permanenti era quasi sempre percorribile in giornata lungo sentieri caratterizzati da scarsi dislivelli.

Durante questa prima fase di colonizzazione furono trascurati i pascoli alti per ricavare spazi per l’economia dell’allevamento all’interno di limiti vegetazionali propri del bosco. Non esistendo ancora un mercato dei prodotti boschivi la comunità di vallata rinunciò alle foreste nella prospettiva di espandere un’attività più remunerativa, quella dell’allevamento. I vasti disboscamenti medievali, ottenuti con l’uso del fuoco, dovettero creare qualche problema se già nel XIV si resero necessari i primi provvedimenti per tutelare i boschi che si trovavano più vicini alle zone colonizzate dagli insediamenti temporanei.

Nel ‘400 il Vescovo di Concordia si vide costretto a multare chiunque volesse “disbuscare, vel in Prata aliquid reducere, vel in proprios usus asserire, vel convertere aliquam partem comugnae”1. Di tenore simile fu la sentenza di Lionello Chieregato del 20 agosto 1500 che oltre a impedire i tagli boschivi vietò di costruire “Stabuleria sine expressa licentia nostra” sui monti che dividono Meduno da Tramonti2.

Se per gli insediamenti pastorali più antichi ci mancano informazioni attestanti la loro origine, per la maggior parte degli stavoli di fondazione cinqucentesca abbiamo la possibilità di ricostruire il clima economico e politico che ne decretò la nascita.

Nel Cinquecento l’attività di disboscamento e costruzione di nuovi pascoli proseguiva alacremente seppure solo in pochi casi le terre nuove fossero state attrezzate con fabbricati. Solo le famiglie più dotate di liquidità potevano permettersi la costruzione degli edifici utili all’attività pastorale. Gli Urbani, per esempio, nella Villa di Sopra erano annoverati tra gli abbienti e potevano vantare tra i loro beni, sopra la Celestia, un prato “cum stabulo uno novo cooperto scandulis, et posito in medio ipsius prati”3. Stavolo e prati erano legati tra loro anche in caso di vendita: “unum stabulum cum pratis ei spectantibus”4.

Com’era logico attendersi, lo spoglio dei documenti cinquecenteschi ha rilevato la grande dinamicità dimostrata dalle famiglie più ricche nel processo di costruzione dei pascoli privati. Una classe sociale di imprenditori stava emergendo dall’omogeneo tessuto economico della vallata, con una strategia tesa a possedere e affittare “stabulorum, et bonorum extra villam, et tabellam”5. Il redditizio commercio delle tele di lana grigia di Tramonti poteva svilupparsi solo con l’epansione del pascolo e l’aumento di offerta di materia prima. A tal fine le principali famiglie di investitori affittavano agli allevatori animali6 e stavoli esterni al villaggio, spesso con un unico atto notarile7, prevedendo, in alcuni casi, un canone in lana e panni8.

La lana alimentava un’attività tessile di carattere famigliare apprezzata sui mercati di pianura, ma era anche un bene prezioso per baratti da concludersi in valle. Le stoffe di panno grigio di Tramonti, in mancanza di liquidità di danaro, potevano servire per fare acquisti importanti. Per esempio, Pellegrino da Prato nell’acquistare la casa di Giuseppe Maddalena, stimata del valore di sessanta ducati, ne versò undici sotto forma di “pannos duos laneos, quos telas ipsi vocant, exorsos, ut contextos lana ovina Intermonti lota, simplici, et pura”9.

La colonizzazione degli allevatori era incentivata anche dai guadagni ricavabili dalla vendita di un altro prodotto, il formaggio, “casei salsi”, che veniva venduto ad alcuni mercanti di pianura, in particolare ai Cisternini e ai Monaco di Spilimbergo. Le famiglie tramontine più ricche, in contatto con questi “grossisti”, si erano organizzate costituendo vere e proprie mandrie che affittavano alle famiglie di allevatori in cambio di formaggio salato11.

Gli allevatori pascolavano le greggi e fabbricavano i prodotti caseari, mentre le donne erano attive nella preparazione della lana e nella produzione del panno. L’attività dell’agricoltura era tenuta in scarsa considerazione e le derrate alimentari venivano garantite dall’importazione di granaglie.

Grazie alla considerazione che godevano i prodotti tramontini gli allevatori potevano permettersi uno scambio vantaggioso, cereali in cambio di panno e formaggio. Questo sistema economico aperto poteva però entrare in crisi nei periodi di carestia per l’alto costo del frumento o a causa di qualche manovra speculativa. In quell’occasione gli allevatori economicamente più deboli correvano il rischio di “fallire” perché il loro indebitamento in prodotti alimentari superava il ricavato del lavoro pastorale e artigianale. Per esempio, nel 1576 Leonardo Colle dopo essere stato costretto a vendere le sue proprietà, “eius bona dilapidarentur”, non era ancora in grado di onorare un debito contratto con Battista Bellati commerciante di Portobuffolè “pro equo pilei rubei”12.

Nella maggior parte dei casi l’approvigionamento alimentare necessario alla valle veniva garantito dall’azione di alcune famiglie intermediarie con i mercanti della pianura o di Venezia. Nel 1586, Giovanni Fritium di Flambro garantiva i prodotti alimentari ai Mazzari, ai Mincelli, ai Fracassi e ai Durat13. Nella maggioranza dei casi, però, erano gli imprenditori spilimberghesi i più impegnati nell’assorbire la produzione di panno di lana e formaggio e pece fornendo un controvalore in alimenti14. I Monaco e i Cisternini, le famiglie notabili delle tre ville di Tramonti e i commercianti di Meduno15 sostennero la prima colonizzazione degli allevatori fornendo loro quei prodotti agricoli che non avevano più il tempo di coltivare. In questo modo aprirono il mercato veneziano ai prodotti tramontini16 già noti per la modesta attività di vendita esercitata da coloro che d’inverno abbandonavano la vallata per cercare un lavoro temporaneo nel porto veneziano.

Tra questi alcuni, stabilitisi definitivamente nella capitale lagunare, iniziarono una propria attività di commercio con i paesi di origine garantendo direttamente l’interesse di certo patriziato veneziano per le risorse della montagna friulana17.

Il successo dell’apertura del sistema economico della valle ai mercati della repubblica veneziana consolidò le trasformazioni territoriali iniziate in età basso-medievale.

I resoconti dei sopralluoghi condotti da Francesco Rota in Val Meduna per la sua “Statistica Agraria”, mostrano con estrema chiarezza come nel XVIII secolo fosse stato profondamente compromesso il rapporto tra popolazione e risorse. L’agricoltura era insufficiente e non era possibile ampliare la produzione del frumento “al cui bando totale ne è contribuito una reiterata funesta esperienza”.

Durante il secolo precedente in Val Meduna si era tentata l’introduzione della vite, ma lo scarso soleggiamento della valle, e il rigido clima invernale, avevano sconsigliato questa delicata coltura. Tra le coltivazioni troneggiava il resistente sorgo turco e i consueti ortaggi. Nei pochi terreni coltivati non si compivano rotazioni se non con la canapa e con un avvicendamento ogni sei anni.

La possibilità di aumentare le coltivazioni era qui, come altrove, delusa da una geografia tormentata delle regioni agrarie. Solo sui terrazzi alluvionali si sarebbero potute introdurre tecniche moderne di aratura, ma gli insediamenti storici erano poco popolati e non ci sarebbe stato interesse nell’aumentare l’autoconsumo di prodotti agricoli. Presso i piccoli borghi invece “non sonovi Buoi, perché all’Aratro non è adatto il terreno”1. La coltivazione si faceva con “zappe, vanghe, e zapponi (…). Le produzioni agrarie sono peraltro scarse nel Paese, che manca di Terreni seminati, ed anco di Animali in riguardo alla popolazione”2.

I toni della descrizione prodotta dal Rota non lasciano spazio a speranze; solo in sordina il tecnico si lasciò andare a un consiglio: “Aggiungo per li zappativi, che vorrei introdotto l’uso de pomi di terra, che devono riuscire”. Evidentemente la patata era ancora sconosciuta all’interno della vallata, ma lo scompenso creatosi tra la produzione agricola e le necessità alimentari degli abitanti non poteva certo essere compensato da questa nuova coltura.

Ma anche sul fronte dell’attività pastorale le cose non andavano molto bene. Secondo il Rota i comuni della Carnia “…ànno un’impareggiabile fertilità di terreno in confronto di questa e crescono senza dubbio d’un grado, e mezzo massime se si consideri la fertilità delle loro montagne, dove si pasce un immenso armento”. Per contro, in Val Meduna si rendeva necessaria persino l’importazione del fieno perché le superfici conservate per il falcio vicino agli abitati erano insufficienti al mantenimento dell’accresciuto numero di bestiame. La particolare costituzione geologica della vallata impediva inoltre di sfruttare gran parte del territorio che rimaneva sterile: “trovo che li comunali pascolivi della Comune sono oltre l’immaginazione estesi, ma ve n’à gran parte, anzi delle migliaia di campi, che sono quasi infruttiferi, ed inacessibili”. Alcuni pascoli alti anche pregevoli, non erano collegati alle mulattiere che da ripidi sentieri non adatti al transito dei bovini. Tutto il prezioso comparto pastorale dei monti Valcalda, Teglara, Sopareit e Sciara fu reso agibile alle mandrie solo all’inizio di questo secolo.

Queste difficoltà, dettate da una morfologia complessa oltre ogni immaginazione, avevano consigliato un esteso utilizzo di greggi all’interno della vallata. Francesco Rota, come altri “periti” del periodo, vedeva nell’uso delle capre la sola possibilità di incrementare le attività agricole all’interno della vallata: “che se è un tratto di necessità, e di economia il tenerli lontani dal poco boschivo, è una risorsa dall’altra parte di far loro mangiare in luoghi impraticabili ciò che nasce, e resta collà infruttuoso, e pasto soltanto alli selvatici Daini, e Caprioli”3.

Le osservazioni precise e drammatiche fornite dall’agrimensore andrebbero però approfondite al fine di rilevare eventuali differenze provocate dal sovrappopolamento nella vallata. Infatti, se consideriamo i valori censuari registrati nella vallata tra il 1770 e il 1881 possiamo notare come all’interno dello stesso bacino idrografico la diversa condizione geografica del suolo occupato dalle due comunità rurali fosse riuscita a far assumere diverse connotazioni insediative al dato del popolamento. Nella Villa di Sopra, per esempio, in poco più di un secolo, l’aumento della popolazione era stato accompagnato da un costante aumento delle mandrie, possibile solo rendendo adatti i pascoli esistenti ai bovini e ricavandone di nuovi per i più adattabili ovini. I canali posti sulla destra idrografica del Meduna vantavano le asperità maggiori e proprio per questo motivo solo a partire dall’800 le comunità locali completarono la loro capillare opera di colonizzazione. Nel farlo furono seguiti esattamente i consigli del Rota: in poco più di cento anni (1770-1881) le capre passarono da 1230 a 2127. La loro voracità e la capacità di raggiungere pascoli privi di viabilità di servizio permise di aumentare le risorse vegetali sfruttabili e di incrementare la produzione di latticini, lana e, conseguentemente, le attività di artigianato domestico connesse. All’aumento complessivo degli animali allevati corrispondeva un aumento della popolazione insediata, segno che almeno nella Villa di Sopra l’economia pastorale era in espansione.

I dati seguenti ci forniscono i termini dimensionali del rapporto tra demografia e livelli di allevamento in Val Meduna.

VILLA DI SOPRA 1770 1807 1881
Abitanti 1544 1521 1914
Bovini 487 550 784
Capre 1230 1400 2127
Pecore 1263 1000 1354
VILLA DI SOTTO 1770 1807 1881
Abitanti 2055 2973 3016
Bovini 700 1065
Capre 1501 1200 1596
Pecore 1972 1500 924

Nei territori della Villa di Sotto, invece, la situazione era ben diversa. La pressione antropica esercitata il secolo prima aveva intaccato profondamente le risorse. La facilità di colonizzare aree in fin dei conti accoglienti aveva consolidato una fitta rete di villaggi rurali che, continuando l’espansione demografica, avevano sfruttato tutto lo sfruttabile. Nella Villa di Sotto, a partire dal XIX secolo, i rapporto tra la popolazione insediata e il numero di animali presenti evidenziò una crisi dell’attività pastorale4. Tra il 1770 e il 1881 in questo comune le pecore passarono da 1972 a 924, mentre le capre mantennero la stessa consistenza. Questa osservazione ci fa capire che l’attività legata alla transumanza invernale delle greggi era andata completamente in crisi nell’Ottocento. Per contro, Claut che aveva ancora risorse sfruttabili in 111 anni aveva visto quasi un raddoppio della popolazione, i bovini erano quasi triplicati, mentre le capre erano quasi cinque volte più numerose.

A partire dal XVIII secolo l’aumento del numero di animali presenti all’interno della vallata aveva accentuato i danni prodotti dal massiccio sfruttamento delle risorse. I magri boschi erano stati in gran parte rasi al suolo per ampliare il pascolo o soddisfare le necessità di combustibile civile. I pascoli estivi non erano in grado di accogliere il necessario numero di animali costrin­gendo le mandrie a migrare verso i pascoli di Socchieve e di Enemonzo5.

Nel 1800 il parroco di Tramonti si trovava a dover certificare la consistenza di questo nomadismo pastorale che coinvolgeva complessivamente nella vallata ben 770 bovini e “oltre 1000 e più capre”6. Il fenomeno era comunque più evidente nella Villa di Sotto dove il comune possedeva la sola malga della Rossa. Il ricorso alle malghe della Carnia si rendeva indispensabile per allontanare durante l’estate il bestiame più prezioso e permettere un’ampia attività di sfalcio e raccolta di fieno sui terreni privati. Quell’anno furono affittate otto “montagne” a partire dalla vicina Teglara, allora proprietà di Meduno, per arrivare a quella cadorina condotta da Gio: Batta Ferroli e compagni. Nove anni dopo la situazione era ancor più drammatica perché gli affitti coinvolge­vano ben nove montagne assorbendo un carico di 1050 bovini7.

Nella seconda metà dell’800 si fece il possibile per rendere raggiungibili gli alpeggi interni alla vallata, ma i tre comparti del Canal Grande del Meduna, per esempio, non furono mai convenientemente attrezzati.  Se i bovini aumentavano, pecore e capre non diminuivano ed erano le principali risorse proteiche degli abitanti. La carne che potevano permettersi le famiglie era per lo più quella di pecore e capre e quindi non è da escludere che l’uso della pitina abbia attraversato le abitudini alimentari in vallata dal medioevo ad oggi.

Il confronto con i censimento degli animali del 1868 in vallata è estremamente significativo per dimostrare questa resistenza degli allevamenti storici anche nel momento in cui si era affermata pienamente una nuova tradizione casearia che si rifaceva al nome del Montasio. Nella Villa di Sopra, più aspra e ricca di rilievi le pecore censite erano 910, mentre le capre erano ancora 1590, mentre in quella di Tramonti di Sotto le prime erano 1037 e le seconde 675. In pratica ben 521 famiglie, quindi quasi tutte, possedevano ovini e caprini.

Nella seconda metà dell’800 cominciava ad affermarsi la presenza di vacche fecondate dai quindici tori presenti in vallata. La presenza dei bovini era esplicitamente dedicata alla produzione casearia perché in tutta la valle non c’erano buoi, mentre le vacche erano 480 nella Villa di Sopra e 582 nella Villa di Sotto. I suini, invece, erano pochissimi. Solo ventiquattro famiglie, le più ricche, potevano vantarsi di averne qualcuno. Non a caso questi si concentravano per lo più nella Villa di Sotto dove c’era una maggior concentrazione di borghesi, e comunque non superavano i ventisei esemplari.  In altre vallate la loro presenza era anche più scarsa. Per esempio ad Andreis e a Barcis erano solo due e a Erto nessuno. Il maiale veniva allevato con le eccedenze delle derrate alimentari e all’interno della valle queste non c’erano e bisognava importare cibo dalla pianura[1].

Gli equini erano relativamente pochi e solo nella Villa di sotto c’era una consistente concentrazione di muli e asini per i trasporti.

In valle svernavano anche animali che provenivano dalla pianura e questo poteva provocare problemi sanitari. Nel 1887  alcune pecore con la scabbia furono ospitate in un alpeggio degli Zatti nella Villa di Sopra, “ove stavano pascolando quasi un migliaio di pecorini”, e provocarono una piccola epidemia degli ovini che ebbe ripercussioni anche nella pianura[2].

La qualità degli animali più preziosi era scarsa e inutilmente si cercava di trovare animali adatti ai suoli impervi della vallata e contemporaneamente molto produttivi: “Tramonti, nonché i comuni della Valcellina, è popolata da una miscela di varietà bovine, ricordanti il tipo carnico, ma per le condizioni diverse di ambiente e per i metodi speciali di allevamento differenziano fra loro nella colorazione del mantello, nello sviluppo scheletrico, nella rusticità, nell’attitudine lattiera più o meno spiccata”[3].

Ai primi del Novecento la progressiva trasformazioni verso un allevamento prevalentemente bovino si stava concretizzando nel cambiamento della popolazione animale presente in malga. A Tramonti di Sopra in media in malga venivano orpitate 53 vacche da latte, 15 manze, 12 vitelli e 50 capre da latte. Le pecore erano ormai scomparse. A Malga Rest i 105 bovini erano affiancati da novanta capre e 40 pecore per intervenire sulle zone più difficili del monte[4].

Le teorie legate al rimboschimento della valle riuscirono a ridurre sensibilmente il ricorso all’allevamento delle pecore: “lungo il bacino del Meduna si nota una certa contrarietà alla coltura silvana; e si ritiene che la proibizione dei pascoli caprini sia una delle cause di miseria per quelle popolazioni”[5].

Per poter condurre le vacche sui pascoli pubblici furono necessarie opere di adeguamento viario importanti come la strada che portava da Passo Rest all’omonima malga. La situazione per gli altri alpeggi si risolse solo agli ini del ‘900: “un tempo la malga Soparedo non era accessibile allalpeggio che dagli ovini e dalle capre, mentre ora vi salgono senza difficoltà gli animali bovini”. Nonostante tutto la tradizione in val Meduna resisteva anche sul fronet alimentare e a  Malga Teglara si faceva “metà formaggio montasio comune, e metà formaggio di slamoia” come voleva la tradizione tramontina.

Le condizioni delle malghe più lontane dai paesi saranno sempre precarie come in canal Grande del Meduna: “in felicissime sono le condizioni dei fabbricati. Le casere di Carpen e Roppa sono costruite da semplici tronchi d’albero sovrapposti, quella di Cuòl è fatta di tavole. Tutte sono anguste, mal riparate, mancanti di fornello”[6].

Il censimento del bestiame del 1908 registrava un aumento della presenza di bovini in vallata. Nella villa di Sopra erano 690 e in quella di sotto 913[7], mentre un censimento del 1911 testimonia come nelle valli del Meduna e del Cellina ormai non si coltivassero più il sorgo e segale ma ormai l’imperante granturco.

Il cibo di riferimento

Come abbiamo dimostrato molto si è perso del tradizionale rapporto con il cibo in vallata. Soprattutto abbiamo perduto nel tempo le qualità dei cereali e degli ortaggi coltivati all’interno delle grandi tavielle degli orti. Alcuni cibi invece si sono conservati a partire dalla pitina.

La Pitina è un agglomerato di carne macinata, un tempo tritata, composta originariamente esclusivamente da carne di pecora, capra o animali selvatici. Una volta prodotto il trito lo si speziava e salava e poi veniva lavorato per ottenerne delle piccole formelle grandi come una ricotta che una volta spolverate di farina venivano poste ad affumicare vicino ai camini o in appositi affumicatoi famigliari. Il trattamento di conservazione dura per due o tre giorni con faggio e rami di ginepro.

Un tempo la pitina veniva affumicata per durare qualche settimana e poi veniva cotta in padella, ma non aveva di certo il tempo per stagionare molto.

La pitina oggi si mangia cruda a fettine, dopo almeno 30 giorni di stagionatura, ma è ottima anche cucinata. Può essere scottata nell’aceto e servita con la polenta, rosolata nel burro e cipolla e aggiunta nel minestrone di patate, o ancora fatta al cao, cioè cotta nel latte di vacca appena munto.

Il formaggio salato come abbiamo visto era un prodotto diffuso già nel ‘500 anche se era prevalentemente prodotto con latte di pecora e capra. Successivamente, con l’aumento delle vacche in Val Meduna si pervenne alla produzione di un formaggio tenero che doveva essere conservato in salamoia. Si trattava di un prodotto molto richiesto dalle cittadine mercantili e veniva venduto anche a Venezia come cibo per i marinai, perché in salamoia riusciva comunque a conservarsi nelle stive delle navi. Successivamente i nuovi gusti alimentari introdussero le nuove tecniche di caseificazione per ottenere prodotti stagionabili e facili da vendere in pianura, ma la tradizione del formaggio in salamoia non fini mai per scomparire e ancora molte valligiane sono specializzate nel trasformare questo prodotto.

La salamoia – in gergo “salina” – viene conservata, in mastelli di larice, in appositi locali della casa e dei caseifici a temperature non superiori ai 14°C al momento dell’immersione delle forme e per i 40 giorni successivi all’inizio del procedimento. La salamoia è derivata da un composto – detto “madre” – costituito da una miscela di acqua, sale, panna d’affioramento e latte, in percentuali variabili in relazione all’originale momento della sua formazione.

La salamoia deve essere integrata con l’aggiunta delle medesime sostanze che la costituiscono con frequenza mensile. A seguito delle integrazioni, l’amalgama deve essere energicamente rimescolato. La massa liquida della salamoia viene almeno ogni due giorni agitata con un mestolo-bastone, per assicurare l’ossigenazione e mantenere l’omogeneità anche superficiale del composto. Le forme vengono mantenute in salamoia per un periodo non inferiore ai 60 giorni, computati dall’inizio della lavorazione del latte, e non superiore ai 120 giorni.

Il formai del Cit, simile al carnico formai frant, è il più recente dei prodotti tipici della Val Meduna. Si tratta di un prodotto realizzato con gli sfridi della stagionatura del formaggio. Un tempo i resti e le porzioni di formaggio mal stagionate venivano recuperate in casera o presso l’abitazione del produttore costruendo un agglomerato di formaggio che veniva conservato a stagionare sotto latte. Si presenta come un formaggio spalmabile, dall’odore forte e dal sapore un po’ piccante.

Il formaggio può avere una stagionatura che va dai 2 ai 12 mesi e con il latte viene creato un impasto lavorato a mano. Viene poi conservato in bacinella per 6-7 ore e poi si ripassa per il tritacarne. Si consuma entro 10 giorni dalla data di preparazione.

Questo prodotto deve il suo nome al “cìt” con cui veniva indicato il “vaso di pietra” usato per conservare l’impasto aromatizzato a base di formaggio.

Il pistùm

Nella vallata nelle tavelle era molto diffusa la coltivazione della rapa, la cui cottura richiedeva tempi prolungati. Il bulbo era un prodotto certo che una volta maturo sarebbe stato lessato lessato e condito o con cui veniva prodotta la classica “brovada”, mentre con le foglie (viscja), le quali però giungevano a giusta maturazione solo dopo essere state investite dalla prima brinata dell’anno, venivano raccolte, cotte, triturate finemente e lavorate per ottenere il pistum.

Questo piatto si serviva accompagnato con la polenta, con la caratteristica “pitina”, con la salsiccia o con il formaggio salato.

Descrizione dell’itinerario

Inizieremo la nostra escursione dal centro della villa di Sopra per dirigerci verso la tavella, cioè una delle zone più ricche e produttive della Villa di Sopra. Per anni questa superficie è stata utilizzata per smaltire il liquame di un allevamento poco distante. Oggi si stanno tentando delle attività di pascolo e sembra ancora lontana l’ipotesi di un riutilizzo per le coltivazioni tradizionali. Ne approffitteremo anche per mostrare a chi ci seguirà il “castello” di Tramonti. Una struttura fortificata in terra e legno, probabilmente del XI secolo, che abbiamo scoperto nel 2003 e che il prossimo anno ci impegnerà con una serie di nuove indagini in collaborazione con l’amministrazione comunale e l’ecomuseo Lis Aganis.

L’affumicatura in casa privata

Visiteremo un affumicatoio privato per capire come veniva fatta questa procedura nelle famiglie che producevano in proprio la Pitina o la ricotta affumicata.

Il sentiero delle fornaci di calce

Per un piccolo tratto di percorso seguiremo il sentiero delle fornaci di calce che si snoda poco fuori del paese toccando una serie di case isolate. La produzione della calce si affermò solo nel XVII secolo e divenne una fonte integrativa del reddito degli abitanti. Sorsero molte fornaci nei pressi delle abitazioni perché il calcare era ovunque e il solo problema era provvedere il forno di abbastanza combustibile e poi seguire la cottura delle pietre.

Un nuovo agriturismo a Tramonti di Sopra

Da pochi anni a Tramonti di Sopra, chiuso lo storico laboratorio di carni che fu del mitico Mattia Trivelli, un nuovo centro di produzione di prodotti tradizionali si è affermato presso l’agriturismo di Borgo Titol. Il complesso edilizio solo una decina di anni fa era completamente in crisi e parte degli edifici era crollata, i pascoli erano stati invasi dalla vegetazione spontanea e sembrava che un regresso del paesaggio fosse un destino ineluttabile per questo settore della piana fluvioglaciale di Tramonti. Per contro l’arrivo di un imprenditore dalla pianura friulana ha profondamente modificato i rapporti instaurando una nuova colonizzazione di questa balconata sul Canal Grande del Meduna.

I nuovi abitanti di Borgo Titol hanno reintrodotto l’allevamento di pecore e di mucche per riprendere in proprio la tradizione dei formaggi della valle: ricotta, pecorino, formaggio fresco e stagionato e formai dal cit.

Non manca nemmeno la produzione della Pitina e visiteremo anche il loro moderno affumicatoio. Oltre ai bovini e alle pecore a Borgo Titol è stata introdotta anche l’allevamento dei suini e questo permette alla famiglia di produrre anche una serie di insaccati che non sono un elemento tradizionale in vallata. A Borgo Titol la pitina viene, secondo le indicazioni del consorzio dei produttori, “ingentilita da una parte di grasso di suino che smorza il sapore intenso e un po’ selvatico della carne di capriolo, capra o pecora”. Borgo Titol produce una pitina certificata dal presidio Slow Food.

La salamoia e la produzione del formai del cit

Ogni famiglia un tempo aveva la propria salamoia per la conservazione del formaggio come accadeva nel ‘600. e le cucine erano un importante centro di trasformazione del cibo. Oggi è difficile percepire questo carattere dell’abitare ma per rendercene conto raggiungeremo dopo circa dieci anni nuovamente la borgata di Chiavaljr per chiedere alla proprietaria di mostrarci come produce questi beni famigliari.

Comugnis

Ci avvicineremo alla tavella della Villa di Mezzo per comprendere la posizione del piccolo villaggio protetto da San Antonio. Da qui saliremo per un piccolo sentiero per permettere a tutti di percepire il luogo e l’abbandono di una piccola borgata sorta su un pascolo pubblico fino al 1600 e poi colonizzato da una famiglia di allevatori. La casa degli allevatori, come quella di Borgo Titol, era un recinto con annessi e abitazione che si affacciavano su un ampio cortile interno.

Nuove forme di allevamento a Pradileva

Recentemente sono sorte nella tavella della Villa di Sotto due nuove attività di allevamento che cercheremo di visitare per renderci conto di come le pecore stiano ridiventando negli ultimi anni l’animale più presente in valle. Visiteremo l’azienda Ferroli e il vecchio capannone di allevamento che oggi è stato recuperato come ovile.

Il forno sociale

Raggiungeremo poi il cuore della Villa di Sotto, il terzo villaggio di fondazione medievale, per visitare l’esperienza recentissima (2013) del Forno Sociale che affianca alla produzione e distribuzione del pane, servizi di assistenza e prossimità rivolti alla popolazione che vive nelle zone decentrate. Da una decina d’anni mancava nella vallata un fornaio e un servizio di distribuzione primario. Il nuovo servizio occupa anche due persone disabili e anche per questo è “sociale”. L’attività nasce all’interno della vicina fattoria sociale ma sta sempre più caratterizzandosi con una esperienza autonoma e con una nuova famiglia che si è insediata in valle per panificare con la farina biologica prodotta dalla proprietà collettiva di San Marco di Mereto di Tomba che abbiamo visitato l’anno scorso.

Il Caseificio

Nella ex latteria turnaria di Tramonti di Sotto è stato recentemente costruito un mini caseificio gestiti dalla fattoria sociale Sottosopra dotato di un piccolo spaccio. Qui si produce ogni giorno una piccola quantità di formaggio di pecora, tre forme e 12 ricotte, che riprendono una storica tradizione alimentare che come abbiamo visto era stata combattuta nell’800.

Fattoria didattica Sottosopra

La fattoria didattica sorta pochi anni fa come abbiamo visto è stata il motore di altre e innovative esperienze di riconquista e interpretazione della tradizione alimentare. Si colloca in una fattoria Comesta eccentrica al villaggio e posta all’inizio della corta valle del Tarcenò. Si tratta di una fattoria didattica che fa iniziative concrete di esperienze didattiche legate all’allevamento del gregge di pecore, delle api e alla coltivazione dell’orto.

La loro mission è un programma di politica territoriale matura: “Crediamo in un’agricoltura socialmente responsabile, capace di rispondere ai nuovi bisogni della collettività, delle persone e del futuro delle nuove generazioni.

In agricoltura la responsabilità d’impresa non è un nobile orpello etico. Investire in responsabilità sociale per un’azienda agricola significa anche produrre “beni pubblici”: aumentare la tutela ambientale e paesaggistica, utilizzare in modo virtuoso ed efficiente le risorse energetiche, promuovere relazioni improntate al mutuo aiuto, realizzare uno sviluppo che sia sostenibile”.

Livignona e Vuar

Se ci rimarrà del tempo vorremmo ritornare a visitare due borghi speciali della vallata. A Livignona nel ‘700 il notaio Masutti costruì la sua residenza come una sorta di villa alpina oggi completamente diroccata, mentre sempre nello stesso periodo una famiglia di commercianti nel piccolo e isolato borgo di Vuar costruì una delle più belle residenze a loggia della valle.

Finiremo la nostra escursione nella Villa di Sotto e chi vorrà potrà fermarsi con noi per mangiare una cena con prodotti della Val Meduna

Michele Crozzoli e la sua pitina

La nostra escursione finirà presso la trattoria di Redona dove un vecchio amico, Michele Crozzoli, convinto di interpretare al meglio la tradizione della valle, ci farà degustare il prodotto che da qualche anno produce in proprio per i suoi clienti. Ci preparerà anche un primo con le erbe e un assaggio di formaggi ramontini.

E’ probabile che visto il poco tempo a disposizione e il fatto che non tutte le fattorie citate prevedono visite alla domenica alcuni dei casi selezionati non saranno visitati all’interno.

Per partecipare

La passeggiata si svilupperà lungo stradine campestri e sentieri. Si  consigliano le pedule o scarpe  da trek e un abbigliamento “a cipolla”. Lasceremo alcune auto nella Villa di Sotto e provvederemo a riportare gli autisti a nella Villa di Sopra ad escursione finita.  In ogni caso ci muoveremo solo all’interno della zona più urbanizzata e controllata della valle. Comunque siete pregati di vestirvi in modo da impedire l’attacco delle zecche e siete invitati a portare con voi piretro idi e altri repellenti per il fastidioso animaletto.

L’escursione prevede una camminata lenta di circa otto ore priva di difficoltà.  Chi viene con i figli è pregato di prestare a loro le dovute attenzioni.

Vi raccomandiamo un abbigliamento conforme alla stagione variabile soprattutto in considerazione delle previsioni del tempo.

Per i problemi finanziari dell’associazione le escursioni di Luoghi&Territori non sono gratuite, ma sottoposte a una quota di rimborso spese per compensare i costi organizzativi. I non iscritti pagheranno 5 euro mentre gli iscritti 3. Per i bambini rimane tutto gratuito.

Numero massimo di adesioni: trenta con obbligo di prenotazione.

Per informazioni e prenotazioni:

Moreno Baccichet: 043476381, oppure 3408645094, moreno.baccichet@gmail.com

Informazioni aggiornate saranno inserite nel sito dell’associazione: www.legambientefvg.it e www.luoghieterritori.wordpress.com

Ringraziamo per il prezioso aiuto le amministrazioni comunali di Tramonti di Sopra e Tramonti di Sotto

[1] Censimento del bestiame della Provincia di Udine (31 dicebre 186), in Bullettino della Associazione agraria Friulana, n.17-18, 25 settembre 1869, 524-541

[2] T. Zambelli, Cenni sull’epizoozia scabbiosa negli ovini nei distretti di Spilimbergo, Maniago, Pordenone, e S. Vito, in Bullettino della Associazione Agraria Friulana, vol.V, n.6, 24 aprile 1888, 110-113; T. Zambelli, Osservazioni sulle malattie epizootiche e contagiose manifestatesi in Friuli nel 1888, in Bullettino della Associazione Agrara, vol.VI, n.4, 21 marzo0 1889, 62-70

[3] Relazione al Ministro dell’agricoltura sull’organizzazione e il funzionamento della Cattedra, in “Bullettino della Associazione Agraria Friulana”, a.49,  v.21, n.25-26, 1904, 419.

[4]  Tonizzo, 192

[5] I rimboschimenti in provincia, in “Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana”, n.9-11, 1907,  322

[6] Relazione della Commissione Giudicatrice del Concorso pel miglioramento dei pascoli alpini dei distretti di Spilimbergo e Maniago (1904-1907), in Bullettino della Associazione Agraria Friulana, a.53, v.25, n.13-15, 1908, 331

[7] Censimento del bestiame del 1908, in “Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana”, a,61, n.1-2, 1916, 29

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Lo zafferano di Dardago

07 giovedì Mag 2015

Posted by Moreno Baccichet in Esplorazioni

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Aziende virtuose, Budoia, Dardago, Paesaggio pedemontano, Zafferano

Da pochi anni nella pedemontana pordenonese è presente per la prima volta la coltivazione del Crocus Savitus dal quale, utilizzando i pistilli del fiore, si ricava lo zafferano. Recentemente l’introduzione di questa coltura nell’alta pianura pordenonese sta attirando molto interesse anche dal punto di vista dei ristoratori locali che stanno sperimentando nuove contaminazioni con la tradizione alimentare.Inizio modulo

I primi produttori si sono uniti nealizzando l’Associazione Produttori Zafferano Friulano nel tentativo di promuovere un prodotto del tutto nuovo “lo scopo è quello di promuovere e valorizzare la diffusione di questa spezia sul territorio regionale, nonché l’assicurarsi che gli standard di qualità del prodotto e le tecniche di coltivazione rientrino nei disciplinari dello Zafferano Italiano”.

Diego Zambon, il promotore di questa esperienza a Dardago, ci ha ricevuti in uno degli appezzamenti di terra che ospitano la sua coltivazione e ci ha spiegato l’intenzione della sua scelta imprenditoriale. Abbiamo visto il campo di terra coltivato in una fase di riposo perché le attività di coltivazione iniziano a maggio e si concludono a ottobre con la raccolta e l’essiccazione. Quello che ci è sembrato di capire è che a fronte di un impegno relativamente modesto di suolo e manodopera durante la gran parte dell’anno, a ottobre la raccolta dei fiori, che si svolge alla mattina, necessita di molta manodopera.

Il prodotto deve poi essere emendato ed essiccato in giornata per mantenere  tutto il valore.

L’altra cosa importante è che lo zafferano sembra avere un ampio spazio di ampliamento dell’attività garantendo un alto profitto rispetto alle superfici impiegate che sono relativamente modeste. Non bastasse le pratiche di coltivazione del fiore hanno poco bisogno di concimi e antiparassitari e quindi, soprattutto su terreni fortemente drenati come sono quelli dell’alta pianura una espansione di questa coltivazione a danno del mais porterebbe ad avere dei benifici ambientali sulla qualità delle acque e del suolo.

https://www.facebook.com/pages/Zafferano-di-Dardago-Il-Friulano/690555364361456

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Coltivazioni di Crocus nella stagione di riposo

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Intervista a Diego Zambon

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il gruppo ai bordi della coltivazione protetta contro l’intrusione dei cinghiali

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La coltivazione

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La parte del campo, circa la metà, deputata al servizio della coltivazione viene fresata

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Con Diego sul campo

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Azienda Agricola Capovilla Michele a Castel d’Aviano

07 giovedì Mag 2015

Posted by Moreno Baccichet in Esplorazioni

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allevamento, Aviano, Aziende virtuose, chilometro 0, Esplorazioni

Uno dei pochi filoni dell’allevamento in Friuli V.G. che sta crescendo, almeno secondo il censimento del 2010, è quello dei bufali. La grande richiesta di mozzarella di bufala che ha tenuto alto il prezzo del prodotto ha permesso di avere dei compensi sul latte prodotto superiori a quelli della vacca sottoposta a una durissima concorrenza con i produttori del nord Europa. Per questo motivo in regione sono nati alcuni allevamenti di bufale che hanno stimolato la formazione di una filiera produttiva del tutto nuova e ancora in fase di assestamento. Michele Capovilla è uno dei produttori che hanno aderito a questa invenzione alimentare che è già un successo. Nel 1982 i tutta la regione i bufali erano solo 10, mentre a trent’anni di distanza sono 1449. Nel 2000 erano 569 e questo testimonia la grande velocità di espansione di questo mercato se solo pensiamo che nello stesso periodo i bovini in regione sono diminuiti dell’11,5%.  Quello di Capovilla ad Aviano è uno degli allevamenti più grandi in regione con più di seicento bufale e una produzione trasformata giornalmente di 1.200 litri di latte di bufala al giorno. Recentemente la crisi di Latterie Friulane che garantiva la trasformazione e la commercializzazione di questo prodotto ha messo in crisi la produzione e l’azienda ha cercato di rispondere costruendo una nuova linea di trasformazione presso il caseificio Rodighiero di Valvasone e vendendo parte del proprio latte nel mercato padano.

Capovilla ha reinventato anche il suo sistema aziendale nel tentativo di offrire più prodotti ai consumatori locali attraverso l’apertura di uno spaccio dove si può acquistare latte, yogurt, mozzarella e anche carne di bufala. In questo senso ha tentato anche alcuni esperimenti come quello di stagionare il prodotto realizzando polpette infarinate e affumicate sul modello della pitina di pecora o la produzione di carne secca acquistabile nello spaccio aperto nel 2013.

Durante la visita abbiamo compreso come l’Ersa avesse promosso questa sperimentazione in allevamento per permettere ad alcuni allevatori di poter ampliare la loro attività al di fuori dei vincoli europei delle quote latte. Il bufalo inoltre era molto più rustico come animale rispetto alla vacca. Mangia fieno più spartano e insilati. Consuma meno e produce meno latte che però ha un valore al litro più alto. Non bastasse, come ci ha fatto osservare Capovilla, gli animali sono poco soggetti a malattie e non abbisognano di essere chiusi all’interno delle stalle. Insomma alcune fasi dell’allevamento sembrano essere più semplici con le bufale compreso il tema della riproduzione che non è artificiale come nel caso dei bovini. Qui ogni maschio vive con un suo branco di femmine e persino il parto sembra essere semplice e rustico per questi animali.

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Capolvilla

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L’ingresso alle tettoie

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I primi arrivati iniziano la discussione con la proprietà

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Gli stalli per la sgambatura

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passeggiata all’aperto

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passeggiata

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Intervista alla proprietà

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Piccoli curiosi

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piccolissimi spauriti

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Praterie conservate per la produzione del foraggio aziendale

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paesaggi di Castello d’Aviano

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Il misto insilato e foraggio fornito alle bufale

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Oggi l’azienda ha leggermente ridotto il numero degli animali allevati e soprattutto ci sembra che si renda conto dei limiti di non avere costruito nel tempo un completo controllo della filiera produttiva. I Capovilla come la maggior parte degli allevatori della pedemontana soffrono il fatto di non essere riusciti a costruire una completa filiera produttiva e di essere nelle mani dei grossisti del latte. Quest’ultimi a tutti gli effetti fanno i prezzi del prodotto determinando fortune e crisi delle aziende degli allevatori. La costruzione di uno spaccio presso l’azienda è un primo passo per verificare la risposta dei consumatori ma è indiscutibile il fatto che recarsi presso l’azienda di famiglia non è facile. Il luogo è quasi invisibile e solo due cartelli gialli segnalano a chi transita per Castel d’Aviano che c’è la possibilità di acquistare mozzarelle di bufala.

Per essere indipendente l’azienda di Capovilla deve cominciare a produrre formaggi di bufala da sola attivando un piccolo caseificio. Questo non può essere fatto senza costruire una rete di vendita capillare che coinvolga almeno la provincia.

https://www.facebook.com/AziendaAgricolaCapovillaMichele

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Azienda Agricola San Gregorio di Massimo Cipolat, Castel d’Aviano

07 giovedì Mag 2015

Posted by Moreno Baccichet in Esplorazioni

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allevamento, Aviano, Aziende virtuose, chilometro 0, Esplorazioni, Paesaggio pedemontano

Quella di Massimo Cipolat è una azienda giovane e innovativa nel prodotto.  Nella pedemontana pordenonese non ci sono mai stati allevamenti specializzati di capre. Alcune famiglie, in età d’antico regime, possedevano alcune capre a fianco delle greggi di pecore per sfruttare i più aridi pascoli pubblici del versante alpino, ma si trattava sempre di pochi animali. Nell’800 una polemica scatenata dai forestali portò alla drastica diminuzione delle capre accusate di aggredire polloni e tronchi dei pochi boschi presenti sul versante. La crisi di legname combustibile  veniva attribuita alla voracità di questo animale. Oggi la situazione è del tutto opposta. La capra è quasi scomparsa dagli allevamenti famigliari, mentre il bosco in tutta la pedemontana ha un incontenibile vigore. L’allevamento di Castel d’Aviano è quindi un elemento di innovazione e di costruzione di una nuova filiera produttiva centrata sulla stabulazione fissa degli animali.  Le sempre più diffuse intolleranze alimentari rendono questo prodotto interessante per un mercato alimentare nuovo.  I prodotti sono latte, caciotta, ricotta, caprino, stracchino, yogurt. L’azienda di Cipolat mostra un carattere innovativo trasformando l’allevamento brado della capra in un allevamento in stabulazione fissa.  Questa forse può essere una nuova stagione per questo animale che negli ultimi anni ha quasi dimezzato la sua presenza in regione passando dal 2000 al 2010 da 5.794 esemplari a solo 3285.

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La testa del gruppo arriva in fattoria

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Le capre

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Massimo Cipolat

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L’impresa è nata nel 2009 con cinque capre e si sta trasformando con forme produttive di sempre maggiore successo lontano dal mercato di massa e dimostrando come questo tipo di attività ha enormi spazi di diffusione nel momento in cui si trasformi in impresa.  Massimo alleva circa cento capre in una stalla linda, aperta e dorata di moderni frangisole. Le capre poi vengono fatte transitare nell’adiacente sala di mungitura. Da qui il latte passa attraverso un sistema di tubazioni aeree direttamente all’interno del caseificio visitabile dalle due finestre che prospettano il giardino dell’azienda. Qui avvengono le principali fasi della produzione. Nella stanza a fianco, adibita a spaccio, gli acquirenti  possono avvicinarsi alla spicciolata ai prodotti freschi di giornata o a quelli leggermente stagionati.

Certo è che questi prodotti estremamente delicati e raffinati poco hanno a che vedere con i formaggi antichi di capra che venivano prodotti nelle famiglie della pedemontana. Quella inventata da Massimo è una filiera corta basata sull’allevamento del tutto nuova. Una invenzione che accresce il rapporto tra cibo e paesaggio in questo tratto della pedemontana.

Massimo ci ha anche raccontato del carattere di sperimentazione che ha la sua attività. In questi anni sta cercando di trovare un equilibrio tra produzione foraggera delle terre che detiene in proprietà e la concimazione dei fondi. Nell’ultimo anno ha avuto problemi nel garantire con il proprio fieno la copertura delle esigenze alimentari del gregge ed ha scoperto che in pianura Padana si producono degli ottimi foraggi essiccati e vorrebbe migliorare la sua produzione. Al momento è riuscito a costruire un rapporto con un impianto per la produzione di biogas ed energia elettrica sorto poco distante presso il quale conferisce il liquame dell’azienda. In cambio riceve del digestato a chilometro zero che ha la possibilità di distribuire sui campi evitando le concimazioni chimiche migliorando il carattere pedologico dei terreni ghiaiosi.

Non bastasse sulla copertura della stalla un importante impianto di pannelli fotovoltaici è in grado di sopperire a parte delle necessità elettriche dell’azienda.

via 4 novembre, 25, Aviano

338 195 1729

http://www.massimocipolat.it/

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La latteria di Marsure

18 sabato Apr 2015

Posted by Moreno Baccichet in Esplorazioni

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allevamento, Aviano, Aziende virtuose, chilometro 0, Marsure, Paesaggio pedemontano

A partire dalla metà dell’800 nella pedemontana l’azione riformatrice dell’Assiciazione Agraria Friulana e una massiccia campagna di informazione riuscirono a modificare in modo radicale il rapporto tra territorio e produzione agraria. L’intenzione di eliminare i vincoli imposti da una organizzazione agraria di antico regime portò alla scomparsa di gran parte del patrimonio pubblico dei pascoli in piano e di quelli di versante più vicini al paese. La promozione dell’allevamento di un animale che produceva moltissimo latte come la vacca introdusse i temi di una stabulazione in stalla e quindi il problema di risorse foraggere famigliari che dovevano essere raccolte e concentrate nel paese.

E’ in questo periodo che nascono le immagini tradizionali delle donne con le gerle che portano sulle spalle enormi carichi di fieno da stivare nel fienile. E’ in questo epriodo che si consolida la tradizione delle slitte da fieno che permettevano di condurre in piano quanto si era sfalciato nelle proprietà che le famiglie avevano acquisito lungo il versante.

La privatizzazione delle praterie inclinate tolse spazio e risorse a ovini e caprini ormai costretti a pascolare solo nei settori più alti del territorio.

Il formaggio di vacca in un primo periodo si diffuse all’interno delle cucine delle singole famiglie che integravano in questo modo la loro dieta alimentare scarsamente proteica. Il formaggio prodotto in questo primo periodo di autoproduzione e di autoconsumo era tenero, a pasta molle, e non permetteva di poter vendere o barattare la risorsa casearia in cambio di altro cibo. La ricotta e una sorta di formaggio salato dovevano essere consumati molto velocemente. Nel frattempo però in Italia si sviluppò una cultura del formaggio stagionato e prodotto da una serie di esperti casari ben istruiti. E’ in questo periodo che attraverso la promozione di forme associative dei produttori di latte si cominciò ad affermare un nuovo prodotto caseario elaborato all’interno di latterie ad ampia base partecipativa di soci.

La prima latteria sociale in Friuli fu fondata il 19 settembre 1880 a Collina di Forni Avoltri. Nel 1890 le latteria erano novanta per raggiungere il tetto di 652 unità nel 1960. Quella di Marsure, originariamente turnaria, è relativamente recente e risale al 1922, con 150 soci. Prima di allora la produzione aveva uno scopo prevalentemente famigliare e integrava la ridotta dieta proteica delle famiglie della pedemontana. L’allevamento era diffuso in pratica in ogni famiglia, mentre oggi i produttori di latte che conferiscono alla latteria sono rimasti solo tre, ma con un numero consistente di capi. In modo non diverso l’offerta casearia si è estesa anche attraverso l’invenzione di prodotti e ricette.

Gli escursionisti di fronte alla latteria

Gli escursionisti di fronte alla latteria

E’ interessante notare come l’attività di produzione del latte abbia costruito una serie di grandi aziende agricole ai piedi dei terrazzi ghiaiosi, lungo quell’asse pedemontano dove un tempo non c’erano costruzioni. La deriva dei bovini li ha portati più vicini alle zone agricole deputate a produrre il cibo per gli animali. Molte di queste aziende, oggi, preferiscono essere esclusivamente produttrici di grandi quantità di latte che vengono vendute alle grandi aziende di trasformazione della pianura padana che giornalmente ritirano il prodotto. Invece, le tre aziende che oggi gestiscono la latteria sociale di Marsure propongono una diversa lettura del rapporto tra territorio e prodotto agricolo. In sostanza hanno dimensionato la produzione di latte sulla dimensione della produzione dei campi in proprietà e in affitto. Il prodotto dei campi viene totalmente impiegato nell’allevamento di vacche da latte e il latte prodotto viene totalmente conferito alla latteria sociale. Qui un numero ridotto di dipendenti diretto dal casaro trasforma il latte in una grande quantità di prodotti caseari che in gran parte vengono venduti nel locale spaccio, mentre le rimanenze vengono fornite a due diversi livelli di distribuzione sul territorio, quello dei commercianti e quello di piccoli e vicini negozi al minuto. Di fatto lungo la pedemontana il successo dell’allevamento bovino dopo il 1850 ha avuto tre stagioni: quella dell’autoproduzione domestica, quella del produzione collettiva del villaggio e quella della produzione aziendale di una filiera corta di produzione e vendita oggi rappresentata dalla latteria sociale di Marsure.

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Intervista a una delle socie della Latteria di Marsure

Non a caso la latteria nei suoi pieghevoli ricorda che il formaggio è fatto con latte a Km 0 ponendo attenzione alla filiera corta tutta dedicata al latte bovino. I prodotti oggi non si limitano al consueto formaggio Montasio, ma presentano anche delle invenzioni non tradizionali come il formaggio salato tipico dello spilimberghese.

L'interno della latteria

L’interno della latteria

Produrre, trasformare e vendere è senza dubbio un impegno gravoso per questi soci, ma allo stesso tempo li rende immuni dai contraccolpi che il mercato del latte, gestito dalle grandi aziende di trasformazione, subisce anche rispetto alla concorrenza internazionale.

Per saperne di più

https://www.facebook.com/LatteriaDiMarsure

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Il paesaggio è attrezzato per produrre cibo per i grandi allevamenti che abbisognano di foraggio, insilati e granaglie

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Cibo&Paesaggio

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    • Inizia la nuova campagna di iniziative 2017 sui temi dell’autoproduzione del cibo
    • Sembra ieri ma sono passati trent’anni
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